La sposa nera

Ilaria Seclì, La sposa nera, Novi Ligure, Joker, 2016

di Simone Giorgino

Nella sua quarta raccolta, La sposa nera (Joker, 2016), Ilaria Seclì lavora sui nessi fra magia e parola poetica, o meglio sul loro comune potere di arginare, provvisoriamente, cioè almeno per il tempo che coincide con l’enunciazione, il progressivo sfilacciarsi della realtà, il minaccioso «boato della furia» (p. 39) che è impossibile da ignorare e si esorcizza solo attraverso l’‘incantesimo’ dei versi o altri esercizi di cartomanzia; e poco cambia se le carte usate per la divinazione sono tarocchi o pagine di un personale diario: si ha scampo solo fino a che la poesia, la sua pronuncia, dura. Oppure finché nei silenzi fra l’uno e l’altro sortilegio permane l’eco o il presagio muto della rissa, celeste e ctonia, che ha preceduto l’apocalisse o che sta per scatenarla: «Lei non venuta al mondo alga espansa, contorni incerti per l’ordine dei tempi. Lui incarnata volontà di ciò che è vivo nelle cose morte. Ritornerà a me, ritornerà nel lago del Silenzio», p. 8.

Nominare gli oggetti, i luoghi, gli incontri, alcuni particolari di vicende private e sfuggenti è un gesto apotropaico che salva tutte queste cose dalla minaccia del loro annichilimento. In questo senso la poesia coincide con la magia (e viceversa): la loro antica parentela permette di allontanare, per l’intera durata della formula incantatoria, ciò che di negativo, maligno ed erosivo è nelle cose, oppure di preconizzare («il futuro dal buco della fine si intravede», p. 10) un giardino incantato da day after, un nuovo paradiso preadamitico e perciò ancora disabitato dalle parole («Non ha cantato che per la fresca e splendida mattina che tutto ha preceduto», p. 8).

Oltre che sul motivo della profezia, la raccolta insiste su quello della fissità del tempo e sulla ciclica impasse da ‘eterno ritorno’ («cullando un Eterno senza moto movimento», p. 10), rappresentati anche attraverso l’anticipazione di brani che precedono di alcune pagine i componimenti da cui sono tratti.

La poesia è intesa come pratica divinatoria – caratteristica, in questo senso, l’ingente quantità di verbi coniugati al futuro – oppure come parola ammantata di sacralità che ambisce a governare l’insensatezza e il disordine caotico degli elementi e della storia. I frammenti eterogenei della propria esperienza del mondo sono gli ingredienti riversati in un calderone barocco da ‘cucina delle streghe’ che l’autrice – per metà sacerdotessa e per metà fattucchiera: in questi versi l’anacronistico orfismo ‘di ritorno’ è corretto da un’atmosfera boschiva da fiaba popolare o da quinte di anonimi scenari urbani – rimescola, apparecchiando, così, il varo della sua Nave dei folli che imbarca «inetti puri di cuore» (p. 31), «zingari cialtroni, mimi e buffoni, […] chi pesa le cose all’incontrario», (p. 25): «Lei, tra i vicoli di Deft, / preparerà per te / una minestra, / partiamo per Narragonien // Sibilla» (p. 7).

La sposa del titolo è figura dell’attesa ed è nera perché veste già il lutto dell’inevitabile perdita di cui ha sempre, nonostante la reiterazione delle ‘formule magiche’, un lucido presentimento: «Ferma lì, immobile, si congeda, nessuna attesa più. / Resta il vento, unico uomo./ L’altare, vuoto», p. 48; la corona che indossa è di spine e d’oro («corona spinata d’oro della capinera», p. 30) perché l’incanto richiede sofferenza e gli alambicchi distillano, nella stessa misura, filtri d’amore o terribili veleni.

Questa poesia orgogliosamente appartata si snoda, così, fra posture iniziatiche e la loro ironica obliterazione, fra panismo esoterico, grottesche accumulazioni e innocente nostalgia di un eden irrimediabilmente perduto, risolti ora con dense pronunzie oracolari, ora con trasparente grazia alessandrina:

Finiremo giocandoci a palla il mondo 


e quel resto che fu d’inciampo

rideremo di nomi e venti mari e boschi

di cui fummo prigionieri, quando avremo

l’universo nel palmo, distanze e continenti

su cinque punte di mano. Ogni bimbo

canterà la verità sul mondo e sarà creduta

la sua versione delle cose (p. 47)

                                                                              Simone Giorgino

L’intervento critico insieme ad alcuni testi del libro sono apparsi qui: 
http://www.carteggiletterari.it/2016/07/11/ilaria-secli-la-sposa-nera-novi-ligure-joker-2016/

 

La sposa nera

La sposa nera

Giorgio Galli sulla “Sposa nera” di Ilaria Seclì

 

 

erzulie

 

Libro arduo e stregante, La sposa nera (Novi Ligure, Edizioni Joker, 2016) ha radici piantate nell’umanità più segreta dell’autrice, va a fondo nei miti e nelle ossessioni che governano il suo modo ferito di sentire il mondo. Si ha pudore ad entrare in un terreno così oscuro e intenso, anche se l’autrice stessa lo ha rovesciato sul tavolo nel suo modo impavido. E’ una raccolta di poesie che tende al poema, un libro che va ascoltato prima che “compreso”.  Artista di aria e d’acqua, del confine tra parole e cose e tra le parole e il silenzio; poetessa di un universo significante che esplora il confine con l’altro da sé, con l’assenza di significati, col silenzio e il rumore del mondo; sempre sul punto di lacerare il confine fra arte e vita, Ilaria Seclì qui ci accoglie con una citazione di Joe Bousquet, mostrando la volontà di scendere nel dolore più urticante, di esplorare il confine più duro, quello fra la vita e la morte, fra la presenza e l’assenza. Questa esplorazione richiede una densità nuova, e costa al lettore un maggiore sforzo di lettura. Ma non si perde la grazia del dire, l’ariosità tipica di Ilaria. La feconda ambiguità del suo muoversi fra lirica ed epica, fra il canto dei più intimi ripiegamenti e l’esplosione di un “canto generale”.
Chi è La sposa nera? E’ una creatura impregnata di un senso mistico e rituale dell’unione. Si manifesta attraverso il donarsi, l’offrirsi, lo spogliarsi, e mai attraverso ilprendere. Privarsi di sé, farsi offerta: è in questo la sua vocazione di sposa, ed è in questo la vocazione poetica di Ilaria: che, come ha scritto Marco Ercolani,”non cerca clamori, ma non vuole silenzi”; e che, nel suo lepido guizzare, cerca l’annullamento della sua parola nel grande libro del mondo (“C’è che mi affianco all’Acqua e poi scompaio”, p. 9). Eppure a quest’offerta generosa – che per inciso Ilaria pratica tutti i giorni, mettendo la sua poesia a disposizione di tutti sul Web – risponde il vuoto terrificante di un’epoca e di una cultura in cui prevalgono le manifestazioni del prendere e del possesso, il comportamento predatorio. Si crea allora una sproporzione fra la poetessa e il tempo in cui vive e al quale non appartiene. Al volontario smarrirsi di sé non segue alcun rispecchiarsi nel cosmo, ma il lutto innescato dalla mancata risposta del cosmo. La solitudine ferisce più forte perché non è figlia dell’isolamento, ma di uno squartamento dell’io dato in pasto a una collettività tecnocratica e danarocentrica, che proprio nel suo declino mostra il suo lato più violento: “l’alfabeto del profitto / inclina l’asse e sposta” (p. 32). La sposa nera è il risultato del cozzo dello splendore con l’orrore, della vita contro il nulla. Queste polarità si compenetrano, atrocemente, come in un rapporto d’amore.
L’impasto di vita e morte, innescato in Bousquet da un’invalidità individuale nata da un trauma epocale (la guerra), in Ilaria si ascrive a una condizione più ampia, che trascende il suo io di donna e di poetessa. E’ dovuta ad un clima storico e non a un fatto storico. E’ così che la parola poetica incontra il proprio nulla, che l’offerta d’amore diventa sposa nera:

sciolte le cartilagini
mi scompongo al nulla, lo abito,
prima proprietaria. qui ci compimmo
amante duraturo, e qui resisto
fino alla gialla culla per le notti solitarie. (p.30)

non avresti giurato aria forestiera
gli occhi pure fatti asciutti ancora
interrogare la materia dell’umano
andato a male (p. 38)

là consolazione è malaffare d’animali
che si promettono provviste per l’inverno.
Affréttati pure, scopri tutto per intero,
presto. Non fui lenta a capire ogni
imbroglio, i veli deliziosi e il loro sterco,
la sorte del re fa colazione da cent’anni
alla mia bocca. Veloce come l’orca
col pinguino ingoia tutto intero questo spasmo
di carne e grazia battezzati alla saliva santa
di demoni e angeli in orgia fratricida (p. 39)

La perdita di tangibilità delle cose determina una slogatura del reale che manda in frantumi non solo il linguaggio, ma la soggettività stessa che lo esprime, privata delle mappe linguistiche con cui descrive il mondo: una soggettività consumata, depredata:

sappia la diga, sappia, sua poca cosa, inutilità
suo trono franante, sparpagliati i pesci in odor
di parola, sparpagliato il nome conteso. il matto
non ha lo scacco, il guerriero non ha lo scalpo. (p.28)

Il mondo astrattizzato, decorporeizzato, avatarizzato è un mondo alla rovescia, privo di senso e di fascino, è un non-scenario apocalittico:

A notte hanno svegliato le lampare,
il sole sciolto in basso in rivoli afoni
pietra e nuova profezia […]

destino inverso del dito sopra il fuoco […]
mugolii di bestie astratte […]
il comico di tutto (p. 29)

La slogatura dei corpi e degli animi non è priva di richiami sacrali: “Il mondo fece credere inadatto il Principe di Perfezione. Bucò l’acqua della sua Sapienza Dolce per dividerla nei terreni paludosi e farne cibo per i molti” (p. 8) Ma il Sacro di Ilaria è un Sacro in pericolo e incerto: inattingibile come rifugio, minato come mito. La preghiera non ha un orizzonte, si disarticola anch’essa:

dolmen senza tanta devozione
monumento che procedi della fine
specchio e già sepolcro. se fosse,
calarsi come secchio nel pozzo
qui vicino, come piano, padre, indichi.
se fosse, rallentarla, questa devota, eh,
malinconia. (p. 15)

Addirittura il dio si rovescia nel pattume:

in quale pozzo il cielo, quale
mano di rosa aperta al centro,
calice innominato o spettro.
lasceremo braccia e tempie
e spaleremo un dio fisso
senza nome, l’ingombro
di residui che l’occhio
centra sulla scena densa (p. 37)

La parola, per reazione, rincula verso l’infanzia, l’infanzia di Ilaria e del mondo, incarnata in una Lecce mitologica. La sposa nera si muove in un orizzonte culturale demartiniano, in cui la parola si fa formula magica, litania cristiano-pagana, tiritera, ninnananna e scioglilingua:

Nel nome del padre e della figlia che l’aspetta
il tempo dei giardini oltre le grate
al vespero accordato il diritto della sera
corona spinata d’oro della capinera (p. 6 e poi 30)

trittico del fieno
riposo dei rospi, angeli ribelli
morte certa all’avidità
curiosità di chi ne mangia, morte
certa, cervi storpi, asini, il prestigiatore.
coscienza dell’ognitempo, da un respiro
ritornata strega, pozzo di chiostro
donna di denari, fiammiferaia (p. 7)

cade polvere, cade ambra, cade
pioggia d’oriente e organi
sui cieli scoperti, i mosaici d’Idrusa (p. 26 e poi 31)

Le formule incantatorie si dilatano, s’infittiscono sotto la spinta di un’angoscia incalzante, dovuta all’incalzare della morte e del nulla:

chi ritorna torna e passa come cosa che
resiste e passa (p. 13)

chicco chiaro di Merisi chicco acerbo
acerbo questo mondo che tu sputi
e t’inghiotti poi d’un tratto senza mai
dimenticare il fischio il canto senza mai
dimenticare frasi buone per il riso
stretti sassi alla partenza fino al prossimo
ritorno che non vedo. Poi t’inghiotti
– e qui si contano 40 spezie per la notte – (p. 13)

Quando nemmeno lo scongiuro e il rito bastano a contenere questo assedio, la poesia scoppia in un grido, straziato e quasi afasico, gonfiato da iterazioni ed ecolalie, come di chi, stretto da un nodo alla gola, non trova più parole:

… lei
la lontana, l’assorta, la sposa vuota,
la promessa – Luna. Luna, or dimmi le voci
– le sante – le mani le croci.
ci sono polsi piccoli e maestà,
velette, bocche serrate, occhi sfatti,
cimici e rose: non a nessuno non
a nessuno. Rose rose rose… (p. 40)

o, meglio, non essere niente, non dire.
o, meglio. il mistero ingoia la gola ed è senza
lancette ed è il cuore piccolo e non ha fretta
e ha stazioni mute ed è senza lancette
e ha stagioni mute né foglie né vento… (p. 40)

La parola e il nome restano l’unica arma di resistenza, le uniche forze vive nell’umano andato a male: “alfabeto di lava e aria” (p. 33), o parola che coincide col gesto, nominazione che è atto d’amore e che è anche silenzio, in un compimento che si manifesta come gioia e come fine:

l’incrocio dei venti non ha rivelato
il silenzio perfetto ma ha baciato
la pupilla quando – per farci coraggio –
ci siamo nominati (p. 42)

Il ricorrere di versi formulari accomuna La sposa nera alle forme più antiche della poesia, quelle degli aedi, quelle non scritte delle tradizioni orali. La parola si svela quasi fisicamente nell’atto di rincantucciarsi, spaventata, di trasformarsi in lallazione. Melodizza solitudini, ma eleva anche preghiere ai poeti che la Storia ha travolto, tenerissime esortazioni come questa, bellissima, rivolta a Paul Celan:

Tieni, prendi. Tabacco da fiuto
fata verde, fino a che sarà buona
l’acqua della Senna. Licenzia
la bestia, andiamo oltre.
Tienila stretta questa tregua,
dai pace al respiro, ferma le foglie
impazzite, la ressa, il getto nero.
Ammutolisci i numeri, le sottrazioni,
l’infamia. Taci. Uno, due, tre.
Taci. Dimentica il sonno indotto,
l’insulina, la vita cancellata e non
dalla gomma dei bambini. Vieni,
accucciati, fatti accarezzare.
Resta.

Il rifiuto di un presente invivibile non esclude l’orgoglio di essere diversi, di essere fragili e vivi sotto una pioggia di forza e di morte:

la chimica sul corso interrotto del sangue morde l’artificio, devia ogni cosa, ogni bocca: vulnerabilità dell’onnipotente. la melma è fatta aria, qui. non un respiro aperto al petto. ogni figura, buon dio, spezzata e morsa dal vizio nero. enormi taniche d’argilla a caccia di effrazioni, distintivi per l’onore civico. prodotti di laboratorio in atelier profumatissimi cercano cavie dell’est, manocervellanze.
una fotografia e la lettera del principio ritornano l’ambra meridiana.
la nenia canterò della terra sconosciuta. (p. 20)

me ne vado nuda e fiera
mi porto l’umanità nella pancia
nellr braccia gotiche e snelle
sui marciapiedi, per i vicoli stretti
senza sapere se mi difendo e strappo
o mi porgo soltanto, indifferente
al silenzio al buio al niente (p. 44)

Alla parola spetta anzi di ricordarci che la forza, alla fine, si dirige contro se stessa e si annulla:

Finiremo giocandoci a palla il mondo
e quel resto che fu d’inciampo
rideremo di nomi e venti mari e boschi
di cui fummo prigionieri, quando avremo
l’universo nel palmo, distanze e continenti
su cinque punte di mano… (p. 47)

E’ dunque una parola potente quella di Ilaria, che nel mostrarsi inadatta e ferita toglie ogni giustificazione alla disumanità che siamo diventati -e lo fa senza gridare, senza protestare: conservando la gioia, anzi, di schiudere sogni d’amore, trepidazioni che solo nell’altrove hanno diritto di cittadinanza. L’Amore è questa trepidazione. Amore di un Tu assente e sempre atteso (si vedano le struggenti Poesie n. 1 e 2 per nessuno). Attesa che è espressione di resistenza, di tenacia e di speranza. Così concreto è il tempo dell’attesa, che s’incarna e si fa luogo:

è colato il tempo dell’attesa
fiorito in un gradino, sempre quello (p. 15)

L’amore come potere magico, tellurico, cosmico motore di speranza. Forza gioiosa e sempre insoddisfatta, sempre minacciata dall’orrore e dal nulla, che nel suo lato ombroso partecipa dell’assenza e del nulla, mentre in quello chiaro evoca un Tu inattuale, ultraterreno ma fatto con gli elementi della terra:

formule al rovescio
per l’azzardo dei dadi,
il tuo conto delle cose
azzera l’evidenza, ecco,
la pioggia esala e il sole
acceca le suole. sto come
sul trono dell’infante
attendo i cibi d’oro, codici
di pollini proibiti
denti di latta per il rinato
medioevo. (p. 33)

Il mio amore ha radici d’acqua
non ditegli che è disperso o annegato
o incerti imprevedibili percorsi.
Non dite. Nella sabbia battono le sue
vene e i tronchi, non dite che non vedete
ha forza di tuono ma sono mani a migliaia
aperte e spalancate al cielo (p. 12)

allunga i passi tra fiato e altare. E sia
il finale, senza vento senza suono:
palmi aperti sbarrati alle ginocchia
e due pozzi agli occhi: le perle, le perle
bianche, da cielo a terra, sfatte, a chiazze:
nessuno le trattenne intere (p. 14)

Talvolta è invocazione disperata, sforzo sovrumano di esistere, ricerca di epifanie o anche di appigli nell’assenza:

La ferocia che prego è straniera,
lingua morta. In luogo di quel porto
sfitto vuoto abbandonato che fu nostro
per un po’. Per sempre mio, soltanto. (p. 17)

Ma è anche sorgente di grazia, di quella gentilezza fantasiosa che è il colpo d’ala tipico di Ilaria:

al trapezio bocche filano sudori
– cuori verdi nella coppa –
lampo scaleno e dischiuso
bieca pupilla per le spezie del re (p. 16)

Ora venite a me. Non ricordo i nomi, non è mai stato tempo, così ho giocato coi fantasmi, come ai sogni l’impossibile si è dato, come bimbe le visioni i santi della croce.
Non conto i colori che sbirci o se m’affaccio al caleidoscopio di nebbie colorate.
Piccina nella scura cruna l’universo perso alle parole che fatico a pronunciare, filtro magico insperate coincidenzemondo delle fate, zingari cialtroni, mimi e buffoni, di chi pesa le cose all’incontrario. (p. 25)

Possiamo solo augurarci che Ilaria non cessi di pesare le cose all’incontrario.

 

Qui si può leggere l’intervento di Marco Furia sempre sulla Sposa nera.

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