Effrazioni o avvistamenti, nulla che non sia propizio

le morti felici foto

 

Resteranno i gatti e la neve

 

Arrivano.

In piena facoltà di sollevarsi da terra. Danze sospese incenerita gravità. Hanno ali leggere impalpabili le creature che volano, non ingombrano cieli, non nuocciono, sono senza volontà.

Il volo da accordare è stato accordato.

Qui “Tedio domenicale quanta droga consuma, tedio domenicale quanti amori frantuma. Guarda Sophia, guarda la vita che vola via. Guardala, Sophia!”.

Arrivano. (In) tema di vite affini. Necessità e benedizione d’incontro, lucerne in tempo senza luce. Le morti felici, Giorgio Galli, Il canneto editore, 2018. Delicatissimo, gentile azzardo.

Non piangete per me, “Dedalo dovete consolare, è lui che muore disperato, io sono morto vicino al sole”. Dice Icaro. Ancora una volta in volo, non in aereo.

Gli atti di estrema, inattuale gratuità gli sono familiari, noti ai fortunati che lo conoscono. Giorgio Galli e la sua capacità di scandagliare animo e scrittura, immergersi negli abissi umani restituendone buio e luce, grazia torbidezza complessità, verità dolore passione. Oltre ogni tornaconto. Qui addirittura il suo atto d’amore lo consegna ai non più vivi. Cornice umile e potente a vite gloriose che lui osserva nella pena di un quotidiano mai tenero mai familiare. Vite di esuli, asservite mai. Le racconta con un incedere delicato e incisivo, avvincente ed elegante. Alla maniera dei gatti.

Non parla di sé. Racconta l’ultimo volo di uomini preziosi i cui nomi la cenere mortifera di questi tempi rende quasi sconosciuti. Ugo d’Orléans, Wittgenstein, Il Santo Bevitore, Cioran, Turoldo, Kafka, Leonard Cohen, Brel. E altri.

Chi sono?

Bandito dialogo con grandezza visione armonia coraggio, individuo perso nella conta di immagini esclamative, pubblicitari imperi categorici, conti in banca, un po’ o tanto stordimento per il fiato da prendere venerdì e sabato. Luoghi affollatissimi per la ragion d’esserci. La propria parte nel mondo.

Schiera di angeli che additate assoluto perfezione grazia, non vi ascolta nessuno qui.

Eppure. C’è chi vi apre la porta e vi invita a prendere il tè, vi prepara la merenda, vi ringrazia. Vuole ascoltarvi. Sì, raccontami della neve, dell’ultima passeggiata bianca. Dai, Robert, continua. I gatti, la neve…

“Il più mansueto dei matti. Nella neve sorrideva. Non aveva niente. Un vestito per i giorni di festa e uno per quelli normali. Nemmeno la carta per scrivere. Era diventato un gatto. Soave, disingannato, inafferrabile, lucido al di fuori della ragione come i gatti. Bisognoso di niente”. Così l’autore per Walser, la sua morte nivea.

Felina apparizione della tenerezza di Galli verso le magiche creature amate da molti “nati a sproposito”.

“…Forse non ero io l’uomo giusto per farti da guida, chi sa. Io posso dirti che il cuore di un artista, di un anarchico non è adatto a guidare un bambino nel mondo. La tisi mi toglie a te a giusta ragione. Noi siamo quelli che restano bambini, che continuano a non capire, a non accettare, che sono spezzati dall’indignazione”, fa dire Galli a Jean Vigo. Ostinata testimonianza di una r-esistenza. Fraternità.

Forse Galli vuole legittimare al mondo tutte le creature che hanno sfidato il mondo e le sue leggi tiranniche. Capitalismo contro spiritualità. Profitto contro gratuità. Progresso contro natura. Artificio e mistificazione contro semplicità e essenzialità. Mediocrità contro valore e grazia. Uomo ridotto a merce e uomo che continua a volare attorno a una qualche luce vista intravista sperata. Amor d’assoluto. Mai come ora inadatto sciocco insensato amore. Mai come ora. Titanico amore.

Eppure, forma d’arcangelo, di estinta nobiltà che per grazia ricevuta ritorna da ere sepoltissime forse non umane, ecco Giorgio Galli. Non la sua, ma le vite altrui. Addirittura non le vite ma le morti che chiudono e schiudono grazia e ferocia d’esser (state) creature indomite libere coraggiose. Fino a fare della propria vita un’opera d’arte, ma senza drappi trombe scranni troni paillettes copertine riflettori.

I nomi sbiadiscono, le tracce e le testimonianze pure sotto il peso degli acidi del tempo, delle ruggini del mondo, delle grandi imperatrici, distrazione disattenzione superficialità voracità rumore fretta.

Visita e plana sul libro con altrettanta luce la potente prefazione di Marco Ercolani, gran confidente osservatore e testimone di vite e scritture “imperdonabili”. Imperdonabile anch’egli. Eccoli, gli artigiani della vita esule, operosi e attivi, testimoni coraggiosi di una forza luminosa e resistente, di una clarità che nessun esercito del mondo potrà rabbuiare.

 

***

 

1480, teche – fotografie di Guido Macorini

spinata

per il verso giusto

Togliere veli

Guido fotografa. Cielo pozzanghere pioggia alberi tronchi legna vetri piante. Paesaggi divorati dal silenzio. Inghiottiti da presenze invisibili e fisse.

Il suo occhio non decide la sorte di chi starà nel rettangolo. Di certo, dentro non ci chiude nessuno. Le sue foto non hanno grate, non sono gabbie. In quel rettangolo la vita continua indisturbata.

Non turba la pace sonnolenta e composta delle cose. Non sposta un pulviscolo della loro grazia muta.

Pietra, neve, albero, legna. Viene da una terra che pretende il silenzio e la natura rispetto. Glieli accorda.

Persa insegna della città: “carnezzeria” di via Palmieri.
Lettere rosso sangue su sfondo bianco. Rosso sangue macellato dalla C alla A. Carnezzeria.
Persa. Sparita.
Nemmeno il tempo di fotografarla. Leggi veloci del commercio, cecità del denaro. Inghiottita per sempre nel buio più buio del buio. Nel buio più buio della fissità delle foto di Guido. Nel buio più buio dove sprofondano cose e persone se non c’è chi registra e raccoglie “indizi di realtà”.

***

Sempre stata” – un mese ad Aliano – “Contiene indizi di realtà”. Il titolo dell’ultimo libro-lavoro di Maira Marzioni.

La vita è una questione di prossimità, adiacenze. Cose che si danno e si avvicinano. Sororali. Si impara ad avvicinarle imbastirle, perlina dopo perlina ne facciamo bracciali, anelli, collane.
Una collana che a volerlo avvolgerebbe il mondo.

Maira Marzioni è stata un mese ad Aliano. Già questo sorprende. Va bene Carlo Levi e il suo confino, ma Maira Marzioni… Sorpresa e un po’ di sgomento.

Aliano non è un posto qualunque, non è un posto come un altro.
Ad Aliano i cani non abbiano come gli altri cani del mondo. Il paesaggio non intrattiene un dialogo mite e sorridente con le creature che lo guardano.

Il silenzio lì è silenzio duro, durissimo, ferroso, minaccioso, lunare.
Di una luna poco materna.
Silenzio senza pietà, senza riparo.
Eco di ancestrali solitudini. Ci si sente senza scampo. Una sorda mutezza delle cose.

Aliano è un po’ come trovarsi in una casa senza energia elettrica. Devi reimparare a muoverti, camminare, misurarti con lo spazio.

Anche gli sguardi, i gesti, i modi degli abitanti hanno un che di insondabile e arcaico che spiazza, provoca un inspiegabile disagio.

Come ci dividesse un modo diverso di stare al mondo. Come ci dividesse un mondo.

Il mondo e il mondo di Aliano.

Stare un mese lì…?!

Sì. Perché Maira raccoglie storie, battiti, voci, segreti. Degli uomini e del paesaggio. Delle pietre e del cielo. Dei cani e delle scarpe diverse per corpi senza simmetria (Se leggete il libro capirete).

Ancora una volta -deo gratias!- un’anima bella, una Creatura.

Maira ha scoperchiato quel manto di silenzio e calanchi, guaiti angosciosi e lune vicinissime e dentro ci ha trovato il petrolio rosso dell’umanità viva, vibrante, vivida. Quell’umanità ancora lontana dall’essere affollata e satura di souvenir, visi nordici, pub, ristoranti, b&b.

Il silenzio fa mille palazzi”. Registra, annota, scrive. (Saranno state lunghe quelle notti).

Ad Aliano gli uomini fischiano da una parte all’altra della piazza, emettono un suono come quello degli uccelli, a volte rivolto a qualcuno, a volte al vento o forse a un pensiero”.

Non mi sono mai mosso. In compenso sotto sopra intorno si muove tutto mi passa sopra il tempo io sto fermo piano piano arrivo fin su al centro dove il corso non c’è più c’è solo osso”.

Sotto i piedi della piazza davanti all’attuale comune ci sono incastonate tra le pietre del selciato delle croci di metallo. Mi raccontano che sotto è pieno di ossa, sotto la fontana quelle dei bambini. Dicono che tre anni fa quando fecero i lavori in piazza, uscirono i crani. Sotto il paese sono state scoperte più di 1500 tombe. Aliano sta appoggiato in equilibrio sopra i morti”.

Aliano è un paese dove il paesaggio è talmente potente che è facile sentirsi niente”.

Accade che il barista non sa fare la vodka lemon e tu stranita glielo insegni. Con quell’aria da occidentale saputella in vacanza. Quelle cose che per una parte di umanità sono diventate corredi di vita, appendici, surrogati, nomi familiari.

Aliano forse è un monito. Una strigliata, un suggerimento su come procedere, sulla rotta da seguire “dopo Aliano”.

Questo paese ha una costa, si può viaggiarlo sull’orlo, camminare col burrone accanto stupendosi di come hanno preso forma le case appoggiate al vuoto. […]

Sulla costa il paese sembra dominare la paura, inventarsi a ogni smottamento una nuova postura”.

Che Aliano sia un emblema? La polverizzazione di una vanità. Schiantata sui calanchi, nullificata dall’abbaiare inconsolabile dei cani. Da un eterno confino fatto casa. Dalla presenza di un Cristo che se lì si è fermato, beh, un motivo ci sarà.

 

 

***

parigi

su Parigi, senza passare dal via di Francesco Forlani

Tentativo di esaurimento di un luogo parigino. Perec e le cose mute, inventario della realtà in movimento, auscultazione del minuto e sconosciuto, prodigio di certi sguardi, diventare ciò che guardano.

Ore piazze tavolini sedie dei bar, macchine cabine telefoniche marciapiedi, impermeabili panchine umori del clima, tacchi numeri dei tram piccioni. Registrazione e traccia di vite scucite al domestico, ai muri, date al “fuori”, a una familiarità senza nome, partecipata e ostile, sororale e muta. Mondo, informe e armonioso calderone di presenze animate inanimate vive. Vibrante e caleidoscopica anima di Parigi.

Quando piove, la voce di Paolo Conte ha un sapore sinistro. Di ferro e polvere e ci arriva in casa, di sottecchi tra le persiane calate, come un sipario sul cortile.

È l’incipit di “Parigi, senza passare dal via”, di Francesco Forlani, editori Laterza. Forlani e il linguaggio del Monopoli per imbastire e puntellare i racconti del suo viaggio nella pancia di Parigi. Penna e cuore nel tourbillon del mondo. Anzi, della vita.

Presenza umile e rigorosa di una divinità che ri.crea. Invisibile. La immagino seduta a un tavolino di bar, scranno preferito per sfamare e pacificare attenzione e voracità di certe inquietudini. O l’avidità delle bestie di dentro mai paghe e tutt’altro che estranee. E non domina, non impera. Il suo trono è un trampolino, un due e tre via!, sull’ognigiorno ognioraemomento ognifiato ogniddove, affondo senza paura né riserve, versamento diretto di corpo e cuore nel magma informe e caotico, inebriante e stordente della vita, minuta e gloriosa vita, misera e sporca, immensa e tenera vita, terribile. Come quella dei marciapiedi, dei banconi dei bar, delle famiglie fortuite, part-time, quelle post-meridiem e alcoliche, dei fratelli e delle sorelle di fumate e campari, di disperazioni e speranze, vodka o whisky. Imprevisti. Probabilità. Trampolino per meglio darsi allo schiaffo prepotente – onda lunga e feroce – che la vita rovescia addosso a chi può riceverlo e sostenerlo. E tutti gli incontri, le riviste, i pranzi, le cene, le ricerche, i progetti, le richieste, gli appuntamenti, le speranze, slanci ostinati, titanici, farsi storia e traccia in un senso che sia comune e solidale, un senso che ammorbidisca e plachi il toc toc estenuante delle nocche su fugacità, orfanità, esilio, incomunicabilità. Stare soli al mondo. La scrittura di Forlani, le sue testimonianze, i racconti, sono un tripudio di energia e vitalità dell’uomo vivo poiché egli è un uomo vivo, capace di tessere e legare nomi e vite, intrecciare eccentriche biografie e storie in un processo di profonda partecipazione, pratica del fare, coralità. Guarda l’altro lo vede lo ascolta. Vuole conoscere il mondo che gli si muove dentro, che si porta, quello che ha dire.

Istantanee di umano mai solo.

Istantanee in movimento che sfilano dal nucleo ignifero di questo viaggio di questa Parigi di questa vita, il senso di ogni esistenza e storia e ne fanno testimonianza da amare, ammirare, compatire, carezzare. Hic et nunc. Emblema e traccia. Grandi ideali e cose minutissime. Vita a tutto tondo. Vita morsicata come una mela. Vita e scrittura imperlate di filosofia e poesia.

– Le donne vivono un tempo ciclico. Tu sei italiano e dovresti saperlo che menstruo significa ogni mese.

– La bête étrangère sarà trimestruale?

– Non dire cazzate e seguimi. Ti stavo dicendo che per le donne è un tempo circolare, si muore e si rinasce ogni volta, si distrugge e si crea nello stesso punto in cui si era fatta piazza pulita, tu vois?

–  Je vois, e noi? Cioè voglio dire e gli uomini invece?
– Gli uomini sono su un tempo lineare, tra la nascita e la morte c’è una linea, a volte retta, a volte tortuosa ma pur sempre una linea che ti porta al mattatoio.

Parigi senza passare dal via è un libro di cui non si riesce a parlare come si vorrebbe, come meriterebbe. È necessario leggerlo per capire il molto che è e che allunga a noi con fare colloquiale e imprevedibile. Grazia e leggerezza tutte forlaniane.

I selfie di Francesco Forlani sono quelli con gli angeli, altroché. Umani che combattono e resistono, in nome della vita e della bellezza, in nome della storia e del tempo che gli sono toccati in sorte, umani che si impegnano e sognano a ogni costo e contro ogni sospetto che sia vano agire, praticare l’incontro, fare.

Mi viene in mente l’esagramma 58 dell’I Ching, TUI, il sereno, il lago”La verità e la forza devono risiedere nel cuore, mentre la mitezza si palesa verso l’esterno nei rapporti con gli altri. Così si assume la giusta posizione davanti a Dio e agli uomini, e si ottiene qualche risultato. Così il nobile si riunisce con i suoi amici per discutere e per esercitarsi”.

E le incursioni corsive francolatinepartenopee. Meritano almeno una lettura, è d’obbligo. Non un aggettivo può descriverle:

oh pater, pater que te sumiglio do sanghe do sanghe, sto papatrac ca num se pode, imaginarse, nun se pode, s’accoutumer addo isso, ca fa male seulement de pensarci a sta chose, oh cosa cosa, de perte, d’abbandon de Pater, sta fimina qui pretend de demeurer gentille, et beata como dice lo santo Poverelo, sta morte sto chiovo ca de lassar ne veut jamais à lui seul, et crocifige lo pater, pater, como cazzo fu que nun ce steve rien à faire, rien à tenter, che so, nu tubo, na flebo, nu miracle da madona et de madre poo pater…

E poi, da capo en marche!, 15ème arrondissement, Il mondo è fatto a scale (la Grande Esplanade):

La Grande Esplanade di questa city così contemporanea è un pugno nello stomaco. Intorno a quel buco si muovono migliaia di lavoratori della nuova e vecchia economia, prima di salire negli ascensori a due cifre dove dimorano gli uffici delle società e delle banche, che contano i soldi degli altri.

Gli ascensori a Parigi sono tutto. Nel diciassettesimo vivevo una vita sans ascenseur e infatti mi erano venute le chiappe di un ciclista per salire tutti e sei i piani a piedi. Ma gli ascensori più impressionanti rimanevano per me quelli dell’Unesco nel quindicesimo. Il quindicesimo è un quartiere che rappresenta la burocrazia inutile ed è popolato di uffici inutili, progetti inutili, appelli la cui inutilità è talmente palese che non ci fai nemmeno più caso.

Ecco, ecco. Parigi, senza passare dal via non spartisce nulla col quindicesimo. È un libro necessario, un tentativo riuscitissimo di esaurimento di un luogo chiamato mondo, di un viaggio chiamato Vita.

***

Dell’Inizio

(su Respiro di risacca di Fabiana Renzo, Kurumuny, 2014)

Un’arte, fra tutte la più esigente e rara, prodigio e grazia, l’arte di osservare, diventare ciò che guardiamo, empatia e compassione, abitare il mondo ribaltandone le gerarchie. Nessun antropocentrismo, abbiamo fallito, è un dato di fatto. Inorganico, vegetale e animale hanno da insegnarci molto, moltissimo. Leggi di natura, fatti cosmici, ciclo delle stagioni.

È tempo che a parlare siano le cose mute, le stesse che incantano occhi senza macchia, occhi dei primi battiti, delle prime stagioni, del primo mare. Occhi testimoni di mondi appartati e potentissimi, tanto invisibili quanto onnipresenti. Occhi dell’Inizio.

È tempo di parole nuove – antiche – quelle che la meccanica del mondo, nella foga dell’andare cieco senza gioia né consapevolezza, ha reso fossili e imbalsamato in scrigni di ciò che sfugge alla plastica della contemporaneità.

Fabiana Renzo rianima mondi, disseppellisce ciò che l’uomo senza attenzione confina nelle discariche della dimenticanza. Lo fa con grazia creaturale, innata, con freschezza e limpidezza, voce nel deserto, voce nobile e bambina, testimone benedetta di ciò che immobilmente perdura.

Fa ritornare alla luce dei giorni, con eleganza simile a una donna in abito lunghissimo e dal portamento umile e insieme austero che avanza sulla battigia di gallipoline caotiche spiagge nell’ora di agostani aperitivi.

Coralli e madreperle, amuleti, stoffe pregiate e bianchissime, organza e percalle. Siamo nel ninfeo del mondo, un mondo prima di quel peccato dell’origine. Perché nei versi di Fabiana – nei suoi occhi – l’Inizio perdura, è qui, è questo momento. Condizione dell’essere, sguardo attento, trasparente, immacolato. “Qui il tempo trova la sua misura/ e nella rotondità di un’aia/ come d’incanto si risolve/ l’uguaglianza e la diversità.” E ancora:“Poi da un’altura si stagliano/ improvvise/ grandi pale eoliche/ inchiodate come giganti teste su una pertica/ a prender nota con un sogghigno/ di quanti oltrepassano il confine.

Ecco, creatura di grazia. Mantiene alla vita ciò che la vita ci promise invano. Promessa d’incanto, promessa d’Attenzione, lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, verità in figure.

Poiché il poeta, diciamo con Cristina Campo, ricrea quelle figure, le scioglie, mediatore tra Dio e gli uomini, tra l’uomo e le cose, tra l’uomo e l’altro uomo, tra l’uomo e i segreti della natura. Attenzione, cura, unico cammino verso il mistero, l’Inesprimibile.

È una sensibilità proustiana quella della Renzo, ma tutta votata all’hic et nunc, al tempo del suo cammino nel mondo. Mondo popolato di presenze nivee, vivissime, rese ancor più vive dalla fluidità e dal rigore di un lessico forbito, attento, minuzioso, esatto. Caleidoscopiche e armoniche sincronie di visitatori mondani, passaggi terrestri e celesti con incursioni costanti nell’elemento acquatico poiché Fabiana è creatura d’acqua, anche per ragioni biografiche. Così donne, bambini, venti, pesci, coralli, torri, giardini, pietre, barche, spezie, fiori, treni, presenze familiari e presenze fugaci come quelle agli snodi del mondo, fantasmi ferroviari e metropolitani, di mercati e di piazze, di aeroporti e di marine.
Agli uomini è dato di vivere un paradiso già qui, sulla terra, ma a pochi è data la facoltà di abitarlo. Ne ha facoltà Fabiana Renzo, capace di ascoltare il respiro di ciò che vive, l’invisibile e magico passaggio da una stagione a un’altra, da una luna all’altra, il vibrare e gonfiarsi impercettibile di una gemma o di una pancia che accoglie, il glorioso alternarsi delle stagioni sullo sfondo di un Sud assolutizzato, mitico, intemporale eppure attualissimo. Luce metafisica e fascino della sua Finibus Terrae.
Ne ha facoltà il poeta in perenne ascolto e visitazione di misteri ignoti, ineffabili, che preserva dall’inclinazione del linguaggio odierno a ridurre, uniformare, scolorire. Non si può nominarli ma inquiete e dolci confidenze li fanno compagni di giochi cosmici, siderali. Attenzione alle mute e minute presenze del mondo. Tracce, simboli, visioni.
Segreti che Fabiana Renzo coi suoi versi avvicina e invita ad avvicinare.

Ilaria Seclì

***

kleist

Dirò dunque quel che ho visto ed è.

Sopravvissuto al mondo, nato a sproposito, imperdonabile. Kleist.
Il Caucaso è il suo destino, votato all’irripetibile eppure costretto dall’appello della nascita a piegarsi, piagarsi, per forza di respiro, ai rituali mortiferi della macchina, alla monotona crocifissione direbbe Artaud, e per di più, su una croce di legno scadente. Il becco d’aquila in dotazione ai giorni, inflitto pane quotidiano, condanna.

Kleist, angelo purissimo tra ottusi funzionari della specie, è il protagonista dell’ultimo romanzo di Andrea Leone, pubblicato da “20090” nella nuova collana Miyagawa.
Kleist è angelo tra i malati mortali che infettano con la loro malattia inguaribile, col loro esercizio di mediocrità, stiletta ossessivo Leone. Lo stesso esercizio imposto dai padri, lo stesso che nutre irrimediabilmente e meccanicamente una servitù malata costretta a senili e patetici tentativi di esistenza, quella dei plebei funzionari della specie, quella dei soldati di stato, gli educatori che fagocitano le nostre vite, ci arruolano nel teatro della follia e della privazione di ogni libertà.
Luogo di martirio è il mondo. Questo mondo, stagnetto per omuncoli orfani di vita, stanca ripetizione e riproduzione imbecille di sì, di pseudovivi cittadini obitoriali deambulanti nel seriale accadimento del niente, nell’accidente che siamo, nella patetica debolezza e evanescenza di una vocina all’interno di altissimi abissali muri che istituzioni d’ogni sorta alzano per proteggerci dalla vita, per salvarci da essa, per farci soggiornare nella lunga vigilia e veglia che precede la morte, unico atto liberartorio, unico squarcio, svelamento.
Il martirio, per Kleist, è essere nati. L’essere costretti a un cognome, a un destino esteso quanto un acquario domestico, una rotatoria urbana, cani alla catena sperduti in stanzoni di caserme dai muri altissimi.
Il ricamo macabro di ciò che in questo mondo non corrisponde è cucito nel nome di battesimo, nei muri delle case e delle aule. Ciò che non corrisponde sono i maledetti e i puri, esseri rosicchiati dal mondo, consumati dalla distanza col mondo. Nessuno scaffale per merce simile, ovunque tu vada, in qualsiasi supermercato della terra, nessuna etichetta li identifica. L’inchiostro della loro esistenza serve solo a condannarli all’ordine alfabetico dei registri, delle carceri legalizzate, uffici dell’anagrafe, all’eredità genealogica e tirannica della cornice dentro cui dalla nascita veniamo depositati e deposti, argomento e traccia, argine, contenitore. Dati e fissati per sempre. Dadi.
Andrea Leone ci porta ancora nel grande freddo, nell’atroce astinenza, nei perimetri asfittici senza finestre né luce delle camere mortuarie della società, della famiglia, della fabbrica indottrinante, dell’imbecille e inetto capostipite. In questi recinti si muovono umani defunti a se stessi e alla vita, servi obbedientissimi, solerti obliteratori di tappe sociali, inseriscono e memorizzano egregiamente il PIN del loro sporco esercizio di potere. Scannatoio della vita. Remotissime connessioni umane.
Leone a ogni passo ricorda l’ignifero e feroce Artaud, tenerissima e crudele creatura immolata sull’altare marcio e misero del mondo: “Ondata dal fondo, che viene avanti con la sua orribile dentatura d’esseri, fatti per ingoiare tutti gli esseri, ma che non sanno mai dove sono”.
Come Artaud diffida di ogni porta da cui passare e nessuna gli appare sicura poiché sa che apre solo su prigioni: “Ah, se ogni camera fosse stata illuminata come al tempo in cui dai versanti delle montagne, aprendo davanti a me la porta dell’immensità, vedevo l’infinito senza serratura e senza chiave!”.
Andrea Leone continua la sua battaglia contro la legge di necessità. La sua silenziosa e nobile eleganza non glielo fa dire, ma la battaglia coinvolge tutti noi, eredi, ab origine, del cosmo, di ben altre ineffabili leggi e fulgidissimi destini. Diventati poi, per qualche decreto ministeriale, affittuari di matrioskine, feti in barattolini di formaldeide. Non è possibile rimediare, scrive, ma almeno è possibile vendicarsi. Leone diventa anche per noi un più tremendo gigante che si oppone al gigante. Vincere o perdere è un fatto del mondo, non lo riguarda.

***

Dove vivono le ombre
di Ilaria Seclì

Il Friuli di Mauro Daltin è popolato di fantasmi.
Punto di osservazione inciso nella pancia di una montagna.
Qui tempo e spazio disobbediscono, infrangono le proprie regole, si fanno nucleo incandescente o gelidissimo dove creature e presenze naturali hanno per dimora soglie incerte, anfratti misteriosi, bui. Si è sempre all’erta, una sorda minaccia serpeggia in ogni storia, così forte da farsi, pagina dopo pagina, quasi dolce per familiarità. Il senso di fine incombente, di ciò che sta per crollare, siano vicende umane o pietre di borghi abbandonati, è più di un avvertimento, è più di una paura, e i protagonisti non la scansano. A ogni rigo pare gli vadano incontro come assecondando un ineluttabile destino, una chiamata.
Signorsì necessario, obbedienza dovuta.
Gli alberi, i sentieri, le rocce, le montagne sono essenze di coro greco, figure consolatrici o sinistre che sostengono voci, piccoli o grandi fatti umani stagliati in un altrove che ha perso ogni coordinata di contemporaneità, sospeso e disincarnato, a onore e suggello di verità imperscrutabili che scontornano anche i più crudi e veri fatti storici e li annebbiano con coltre di zolfo. Verità e destini monchi, come la biada della mamma del brigante Tosolin, mai sufficiente per riempire la cesta, come il museo della perdita e della memoria che è Palcoda, e richiama, all’autore, l’immagine di un abbandono: per quanto
nitida e definitiva è pur sempre vertigine, bilanciamento nel vuoto, tremore, sottrazione. Termini duri, originari, cari a questa terra che nelle zone più selvatiche e oscure da nessuna urbanità si è fatta addolcire, né s’è fatta animare, (con quell’accezione che è oggi “animazione”) importando fatti e rumori d’(in)civiltà nel silenzio delle vette o nei selvatici giardini di un eterno medioevo di colori e ombre.

***

su “Il pompelmo rosa” e altre acrobazie di ASFALTO TEATRO
di Ilaria Seclì

Le guglie sono altissime, aguzze. Qualcuno, pochi furbetti, le scambia per code di topi imbalsamati. I topi fanno gargarismi con le formule del primatempo perfette, prima taxi, prima frigo. Ne impediscono lo svelamento. Eppure qui è tutto chiaro, come dai bambini. Agrammatica! Né è breve il gre-gre di raganelle. E’gremito il teatro nell’ex laboratorio saldatura Knos di Lecce. Dopo le rocambolesche rivisitazioni di Klossowski, Carroll, Kafka, è la volta di Kerouac. E’ il Pompelmo Rosa. E’ il cosmoteatro di Aldo Augieri. Le parole sono gaglioffe, pallottole sventrate dalla pancia di un vulcano che ha fatto indigestione. L’angelo è insonne. E vuole essere disturbato. Lui, più che disturbare, stura. La pioggia gronda troppi sì, troppi sì velenosi. La mano dell’alchimista orfano d’alfabeto fa distinguo e trattiene il veleno, a sue spese, a sue spalle, a suo calvario, siparietto tragico delle espanse perpetue risa. Non dice perché no. Declina le onde, i cappelli, le mani dei vecchi, i grembiuli delle bariste, dà mangime alle corde dei funamboli d’asfalto, si ciba di catrame e mozziconi, declina le linee tracciate dalle sedie di legno abbandonate, scrive in stampatello sui loro pentagrammi, indovina gli umori degli specchi prima che cantino i galli. Biancalice gli si è ammuffita in una sempreverde narice. Le parole, il sabato, non ritirano più la paghetta, pur restando nella gabbia d’oro, non avanzano richieste di compenso. Il tributo è perso all’aria come il sangue del vampiro che non basta e non basta. Il pompelmo si è fatto anemico. Più il sole brucia sotto il cuscino più Asfalto impallidisce. E si è vista, ora, per prima, una croce, la prima croce. La guglia che uncina le pance da sotto, né messaggio né rimprovero. Pura rivelazione, visione coperta come la croce del quinto giorno di settimana santa. E il dio mostro che mangia lamercaramella. Il mare la merca la cara la mella. Il mare è donna, donna il verso delle onde. Donna la pancia luna di Stefania. Claudia Giuliana Roberta. Tutti i fumi che esala la terra, dal suo più nero grembo, tutte le voci di strada, tutto l’oro che levita dagli scarti e dalla spazzatura, le urla degli ambulanti e le accelerazioni di api delle Giravolte, lì finiscono, in un grembo di donna, nell’incavo senza giudizio del tribunale dei disperati, dei santi, dei bambini. Da qui sorge, si solleva il dio mostro. Non vanta nessuna discesa, non si è piegato, non scende le scale, nessuna montagna fa da scivolo tra cielo e la piana deserta e misera degli uomini. È più in basso, che di più neanche l’inferno. Dal catrame, dall’asfalto squarciato si rivela e sbalordisce. Questa volta i fuochi, gli artifici non si sono fermati in aria lasciando vecchi, donne, bambini a boccaperta. Cadono, sono caduti, questa volta, anche le stelle, bruciate, e si fa buio, buio. E le sirene, le onde, le voci inascoltate di fatata morbidissima salvezza si fanno gre-gre. Il mondo non ha campo, nessun ripetitore può trasmetterle, qualche cuore sì, lì, seduto. Le sirene confondono, le onde agglutinano in pietas di lari che sanno e non rivelano i dadi di loro fortuna di scampati al mondo. Le donneondesirene, superbe, melliflue, sollevano il mondo, ammutinano pensieri fanno polvere d’oro attorno dicono il vuoto che serve, nudità, cantano i versi del mare, i fiori del mare. Germogli d’aria, sanno che solo nero è luce. Sanno la scienza malata e necrofila del secondino, la malia delle gabbiette che ci tengono ostaggi. I segnali obbligatori, i divieti d’accesso, di sosta, si fa non si fa, le tappe, le obliterate cerimonie. Loro sanno, sanno che i no e i notturni paladini hanno dimora solo in fondo al mare, bauli giganti come navi mangiano i loro tesori. I no che il catrame del mondo ha infilzato in una roccia del Caucaso.

***

su Nel respiro di Paolo Fichera

Distanza

Esistono fiori, non in natura, che per crescere non hanno bisogno di cura né di luce. Luce o buio, nelle segrete di una distanza, sono nati. Distanza. Lì, continuano a ingoiare il proprio mistero. Il muschio del mistero grande, ammutolente, la fa più eretica: distanza dalla signora che la annienta e la consacra.
Esistono fiori, non in natura, la cui malattia neppure morte cura.
Guardate, infilate il viso in questa fosca nebbia di porpora, nel respiro, sentite, nella celebrazione del rito, l’intensità, l’irripetibile scansione rallentata degli ultimi gesti, ecco, pure, non la colma. Il crepaccio non si cuce. Il labbro tagliato all’origine, in quel principio, nessun filo chiuderà. Solo un balsamo dà pace: il suono, la stalattite di quel sangue, di quel fiore inesistente in natura, suono del suo sangue gettato senza prece, nominando, sanguinando mondi e nomi. Sua distanza.

5 risposte a Effrazioni o avvistamenti, nulla che non sia propizio

  1. Giorgio Galli ha detto:

    Scordiamoci il linguaggio compassato dei critici e dei recensori. Qui c’è una poetessa che parla di libri altrui con il suo passo lieve e sfrenato. Non giudica il lavoro altrui, piuttosto lo vive, ci parla, lo scardina, ci lotta, se ne fa aggredire e ci aggredisce poi con le sue parole: purissime, feroci, parole di chi nei libri degli altri -come nei suoi- muore e rinasce. Una struggente ordalia del fuoco che fa brillare ciò che vivo rendendone insopportabile la differenza con ciò che non lo è. Testi “critici” che sono come urla, sopportabili solo da chi sconta la bellezza con un orrore quotidiano e sa fronteggiarle entrambe. Non una lettura, ma una preghiera rivolta a regioni al limite dell’umano, che può raccogliere solo chi è ancora disposto a restare sconvolto, tramortito dalla scrittura, a condividere questo rutilante rito di purificazione.

    • leragionidellacqua ha detto:

      La scrittura è amante esigente, non si accontenta di poche parentesi rubate al tiranno. Avevo più tempo, caro Giorgio, la macchina abietta non aveva sguainato tutti i tentacoli. La resistenza continua, anche la forza di non cedere ai compromessi. Ma il tempo, quello no, non è più lo stesso. Quando riappare, in più generose dosi, basta appena per ordinare i propri mondi. Era naturale e un atto d’amore scrivere delle letture amate, continuerei a farlo, ma tocca impiegare il tempo a fare altro. Per quanto si viva in percentuali non molto alte (vedi Eusebio), non ne resta tanto da dedicare alla bellezza di pagine altrui. Su Marco e Lucetta avevo cominciato a scrivere, poi tallonanti incombenze mi hanno distolto, e niente. Sì, che peccato.
      Sempre una Grazia la tua cura, la tua attenzione, creatura preziosissima e generosa

  2. marco ercolani ha detto:

    Mea culpa. Non ero più sceso a commentare il tuo blog, Ilaria. Ha ragione Giorgio: o si è tramortiti dalla scrittura, o niente. Tu, qui, parli per atto d’amore. Davvero. E la bellezza delle pagine altrui è necessaria, come la coltivazione dei propri campi. Se il tempo ruba spazio, nella vita, la scintilla deve restare. O si è colpevoli per averla ridotta al silenzio. Questo no. Ci pensa già il mondo. Un bacio. Marco (e Lucetta)

  3. Giorgio Galli ha detto:

    Grazie. Senza limiti.

Lascia un commento