Un occhio non dorme, per lui cresce la pianta
veglia la banda di patrona spodestata
preserva il cuore dal rogo
Mary lo porterà, è suo
Versilia testimone e culla.
***
Prima dell’estinzione, Alejandra
di tutte le rovine possibili
prima della progenie data al niente.
Viene il settimo giorno, il silenzio perfetto
illude l’aria il giardino non risorto.
Le altissime mura dei Misteri
ora spianate senza orizzonti
unico affaccio dei molluschi globali.
Come per il maiale, dicono
della vita non si butta niente.
Un coro denso dallo stadio
fa tremare l’aria
in pochi sanno che a vincere
è la squadra avversaria.
I più esultano per motivi
che venti fiochi dileguano
scivolano cadono non stanno dritti
nemmeno per i figli hanno un nome
ma loro urlano cantano ridono raggianti
dicono di essere i campioni del mondo.
***
Mostar, i melograni non hanno fatto la tua fortuna
le moschee i ponti i gatti l’ardore del muezzin
il ’94 unica data di morte del giovane cimitero
***
Come su una nave dopo la tempesta:
alle prime luci sciamiamo sul ponte
a salutare il nemico di qualche ora fa
È sorprendente come la tua poesia non racconti il passato (che non è niente) ma il presente (l’attimo così siamese) che non pretende somiglianze con qualsiasi altra voce del verbo ostile “di qualche ora fa” nevvero?
La trama, l’accaduto delle prime volte in apparizione di Titani Uomini Dei. Viso passi cuore aperti. Il respiro imbevuto di Elementi. Fuoco e cuore in gola.
Dopo resta l’attimo senza racconto, senza successione di eventi, senza inanellarsi di voci, vicende. Resta un’epifania. E l’attimo non è più legato all’uomo, ma alla natura. Ed è veramente un attimo, non ci fosse la poesia neppure lo si ricorderebbe. Paesaggi, sfumature di colore. Il mondo muto.
Le cose innocue e mute.
Il passato è tutto, non è niente più.
Sempre grazie a Te
sono io a doverti ringraziare per questa risposta
La natura basta a se stessa, l’uomo invece no. L’attimo è moltiplicatore, ma non una moltitudine. La poesia non fa altro che ruotarci intorno nell’abbaglio promiscuo di una metafora appena abbozzata. Forse l’epifania di cui parli. Ma bisognerebbe essere morti come i “dubliners” di Joyce per coglierla davvero. E allora sì, non c’è racconto, non c’è storia, non ho c’è vita, o perlomeno non c’è vita (nessuno) a cui raccontarlo.
I morti di Joyce… Già
Sono detriti, fossili le parole della tua poesia. Hanno le impronte del passato, ma sono presente. Portano le tracce del passaggio della vita, ma non sono più vive. Appartengono al regno minerale e animale, non al nostro. Piuttosto appartengono al divino. Durissime e diafane, sono aria e pietra.
E tu pietrifichi e onori. Spietato e esatto mi restituisci verità e complessità che anch’io ignoro, poi ascolto e so riconoscere. Grazie, compagno di spirito e alfabeti muti